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Il Blues L’Africa e l’occidente

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Il rapporto tra la cultura occidentale e quella africana mi ha sempre incuriosito, da sempre l’Africa ha rappresentato per gli intellettuali e per gli artisti europei e non, un bacino di stimoli culturali inesauribile.

E’ vero che spesso si identifica lo stile Africano come uno stile Primitivo, cioè legato a modalità espressive superate da altre istanze culturali e/o artistiche, in verità andando informandosi meglio si scopre che gli sviluppi dell’arte africana hanno spesso toccato armonie formali riconducibili all’ellenismo come i bronzi di Ife.
La stilizzazione africana, con la sua urgenza espressiva e il suo ridurre a forme geometriche essenziali è stata la miccia che ha fatto deflagrare la pittura europea agli inizi del 900 definendo la fine dell’accademismo e aprendo le porte alle avanguardie storiche.

Mademoiselle d’Avignone e le opere di Picasso, Braque, la visione cubista, nascono da li.
Non dallo studio dell’arte nelle pinacoteche ma dallo studio dei reperti nei musei etnografici, vero e proprio scrigno delle meraviglie per intere generazioni di artisti.
La necessità di rompere la continuità con la tradizione è sempre stata uno stimolo dirompente, quasi adolescenziale, ma le arti hanno fatto questo passo in un cammino progressivo ma inarrestabile verso la libertà di espressione. Era necessario NON ESSERE ACCETTATE, NON PIACERE A TUTTI I COSTI per poter avere il credito necessario per una totale autonomia espressiva libera da vincoli descrittivi. L’artista delle avanguardie ridefinì il ruolo dell’arte nella propria società. Non è poca cosa.

La caratteristica dell’occidente quando studia un fenomeno culturale “altro” è quello di ricondurlo all’uso che se ne fa nella propria cultura. Questo portò i cubisti ad amare la stilizzazione Africana ma non a comprenderne il significato ne tantomeno la funzione, ma fu sufficiente a rivoluzionare il sistema figurativo occidentale.

I cubisti non sapevano ad esempio che le maschere che loro ammiravano non erano solo oggetti, ma entità vive che andavano nutrite con cibo vero e chi le indossava diventava il soggetto della maschera. Questo non avrebbe probabilmente cambiato il risultato della loro opera ma probabilmente avrebbe fornito una maggiore consapevolezza e chissà…

Quando si parla di blues si tende ad identificarlo con una certa cosa ben codificata, con i suoi schemi, le sue armonie, le sue regole. Si tratta di una sorta di schematizzazione necessaria al lavoro di trascrizione.

Benché il blues esista da centinaia di anni la prima trascrizione avviene ad opera di un musicista colto W.C. Handy.
La schematizzazione utile alla trascrizione è stata la culla e la tomba del blues e solo le ricerche più approfondite hanno evidenziato questo aspetto.

Indubbiamente questa schematizzazione ha permesso una grandissima diffusione di quegli artisti le cui caratteristiche rispondessero ad un maggiore accademismo. Quando pensiamo al British Blues, e quando analizziamo le opere di artisti appartenenti a questa corrente viene fuori in maniera evidente la preferenza per artisti dalla cifra maggiormente accademica, dallo stile schematico, oppure “schematizzatile”. Si pensi ad esempio alle cover di Robert Johnson ad opera di Eric Clapton o John Mayall, o alle versioni “addomesticate” dei brani di Howli Wolf ad opera di Clapton e Winwood, al saccheggio di Skip James.

Fa tutto parte del modo occidentale di approcciare le culture altre. Non è sbagliato a priori, dimostra comunque un piglio progressista, ma risulta alla lunga privo di profondità. In quest’ottica nascono grandi musicisti manieristi che conoscono tutte le note suonate da gente che non aveva nemmeno la terza media e te le ribaltano addosso con lo stesso suono e lo stesso timing, come fossero la poesia di Carducci.

Col passare del tempo si capisce che lo schema aiuta ma non è tutto, non si può approcciare Skip James senza capirne la spazialità, il valore del silenzio, il respiro delle note. Non si può ascoltare Robert Pete Williams senza considerare la poliritmia africana. Non è facile per niente tutto questo, bisogna saperlo.
Però la ricchezza è tale che se uno ha il tempo e il talento necessario come un Luti o un Viterbini, vale la pena dedicarcisi con passione. Si può migliorare il proprio approccio al blues ascoltando la Kora o i canti di lavoro, gli holler, gli antichi spiritual… non necessariamente sempre e solo Stevie Ray Vaughan.

Quello che bisogna tutelare è sempre la libertà espressiva. Quella vocalità fuori dal coro, quel che di inaspettato e personale che è il proprio segno su una tela bianca. Non è necessario piacere a tutti perché il blues ha senso quando ti far stare bene con te stesso. Anche se ha una dimensione sociale (nel migliore dei casi) ha sempre un valore personale che lo giustifica e lo rende necessario e urgente.

Quindi se è vero che l’arte africana ha permesso alla pittura e all’arte in genere occidentale di camminare verso la libertà, possiamo dire che il blues con la sua carica destrutturante può aiutarci nello stesso modo se lo approcciamo nel modo corretto.

Ph. Wikipedia

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