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Rejetti del Blues

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Nella strana dinamica delle cose il Blues, quello con la “B” maiuscola è arrivato fino i giorni odierni, è salito sulle navi prima e sugli aerei poi per arrivare fino da noi, nella terra dei limoni, dei ponti romani.
Ha toccato il cuore di molte persone sensibili, è stato studiato e amato in mille modi.
La dinamica delle cose ha trasformato il Blues da espressione di un popolo a fenomeno globale, prevalentemente di nicchia.

Vabbè sembra scontato che le cose vadano così, nell’epoca dell’usa e getta, dove tutto è accessibile, dove puoi comprare un prodotto il sabato e te lo consegnano la domenica.

Il Blues ha avuto però sviluppi imprevedibili e a tratti grotteschi. La prima generazione di bluesman italici aveva una sorta di venerazione e rispetto per gli artisti del sud degli Stati Uniti, avevano iniziato a conoscerli tramite il Rock Blues inglese e tramite i tour europei, che muovevano veri e propri giganti del genere. Questi artisti italiani, pur con una limitatissima conoscenza della lingua parlata da questi bluesman erano molto più rispettosi di tutti quelli che seguirono.

Si rendevano conto della distanza culturale che però non era necessariamente distanza umana, anzi erano in grado di arrivare al nocciolo della questione in modo molto empatico e genuino. Di base c’era una sana ingenuità data dai limitati ascolti e dalle ancora maggiori limitate possibilità di viaggiare, la lira era una moneta debole rispetto al dollaro ed erano pochi quelli che potevano andare negli USA.

La situazione col tempo è cambiata.

Spesso ci si scorda che il Blues non è la musica dei vincenti, cioè, benché sia stato il mezzo con il quale un popolo schiavo ha cambiato il destino culturale del mondo, quindi sia stato l’ariete che ha riscattato una sorta di fatua storica il blues è stato per moltissimo tempo la musica dei Reietti.

La stessa storia del blues insegna che il passaggio dalla campagna alla città aveva appunto una valenza economica e di miglioramento dello stile di vita di queste persone.
Un bluesman rurale degli anni 50 era uno che NON ce l’aveva fatta contrariamente a un bluesman elettrico di Chicago dello stesso periodo, che si poteva permettere di pagare una band di 5 persone e incidere dischi.

Ovviamente il discorso non vale per gli artisti del Mississippi blues del periodo a cavallo tra i primi del 900 e gli anni 50. Alcuni erano professionisti, nel senso che non dovevano lavorare come braccianti per pagarsi da bere e da mangiare.
Un Robert Johnson per fare un esempio illustre era proprio un professionista del blues.
Ma non è che fosse una gran vita. Incideva dischi per un mercato limitato, quello delle Race Records.

Ora da noi si assiste a un fenomeno singolare. Artisti che hanno conosciuto il Blues su Youtube che comprano chitarre da 4000 € con i soldi del papi, o con la rendita della fabbrichètta per farsi fotografare nelle strade di New Orleans, come quelli “veri”.

Fanno il tour del Mississippi ingozzandosi di Gamberi e Gumbo, facendosi fotografare vicino alla tomba (una delle tre o tutte e tre di Robert Johnson), lamentandosi del caldo e delle zanzare.

Hanno chitarre perfettamente settate dai liutai più fighi d’Italia, eredi diretti di Stradivari.
Alcuni hanno l’attico in centro a Chicago, per poter meglio apprendere i segreti del blues da bluesman veri come un Lurrie Bell, altri hanno studiato chitarra con Ronnie Earl in scuole con rette da 10.000 euro, altri hanno preferito il clima mite della California magari approfittando del fatto di essere li per acquistare una Gibson byrdland del 1970 per soli 6000 dollari. Non è che pagano bene i lavapiatti in U.S.A., più che altro sono i soliti “soldi del papi” a saltare fuori.

Stampano dischi in CD o in Vinile registrati in coolissimi casolari attrezzati con le migliori attrezzature e i migliori comfort, di solito in 400 copie che rimangono per lo più invendute, pagati con i soldi che la fatina dei dentini gli aveva lasciato sotto il cuscino da bambini o con il crowfaunding.
Con foto dalla faccia truce in stile western. Beata ingenuità.

E’ la pornografia del romanticismo, dove si confonde la cartolina del posto del cuore con il posto stesso. Assistiamo a gente frustrata che rimane malissimo per non avere il tappeto rosso nonostante sia bravissima a suonare il fingerpiking, quando i suoi artisti di riferimento tipo un Son House, avevano passato più tempo dietro al culo di un mulo che non su un palco. Alcuni avevano preso il primo aereo a 70 anni, e una vacanza in Europa non era nemmeno immaginabile con uno stipendio da bracciante.

E’ il benessere di chi non ha capito una mazza. Il blues è ancora la musica dei Reietti, come diceva il compianto Frank Pintone. E se senti un incisione di Son House capisci che questa non è musica da ascensori, ci vuole cuore per capire che il Mississippi è il posto da cui quei disgraziati scappavano, era l’incubo da dimenticare, era il posto dove Jim Crow girava ancora quando le leggi segregazioniste furono abolite.

 

IL VESTITO “DA” BLUESMAN

Avevo finora tralasciato la questione look in quanto si presta a diverse
Interpretazioni, il look è importante, per diversi motivi, vestirsi bene è una forma di rispetto nei confronti del pubblico che assiste allo spettacolo, questo insegna Bob Stronger ed in effetti non mi pare di aver quasi mai visto un bluesman salire su un palco in canotta, sempre che non fosse ripreso in situazioni informali. Ricordo un Robert Belfour in giacca e cravatta con 40 gradi all’ombra sul palco del Juke Joint Festival.

Il bluesman sale su un palco ed esegue uno SHOW che vuol dire spettacolo, “To Show=mostrare”, questo traccia una linea di confine tra l’idea di “concerto” nel quale mi siedo e ascolto e l’atto di assistere ad uno spettacolo.
Qui i fattori in campo coinvolgono anche il “visivo”, lo stesso Hendrix affermava “la gente guarda le mie mani e non ascolta più la musica”.

Da noi c’è la moda del vestito da bluesman. Meglio quando anni 30 o 50. Si sfoggiano look ricercati in modo che si possa capire che anche se non sei del settore stai vedendo un concerto di vero blues. La modalità cartolina.
Magari uno stivale pitonato, una vestaglia da Regina del Voodoo, un cappello alla Dr John, il completo a righe di Robert Johnson. Porca zozza un americano che entra in un bar a Piumazzo si deve sentire a Clarksdale nel 1954 sennò non va bene, non va bene per niente, e poi chitarre archtop in compensato col manico senza truss road tutto storto..non è un concerto è un viaggio nel tempo…ecchecacchio… Ma poi non basterebbe cercare di vestirsi bene e basta? Mica molto, una giacca una maglietta… questo non farà di noi dei veri bluesman,ma almeno delle persone frequentabili…potrebbe essere una conquista.

Bisognerebbe mettere in campo un po di umiltà vera. Anche se la parola umiltà sottintende spesso il fatto di essere “meno degli altri”, invece non è umiltà essere meno di Son House….. è Realismo! E Son House era un perdente, lo è stato per la maggior parte della sua vita, non era Lady Gaga con l’attico e la piscina. Siate artisti, siatelo in modo onesto, senza cercare paragoni impossibili, fate le vostre cose, ma siate consapevoli che siete dei PRIVILEGIATI.

Quindi chi non può avere l’attico, la chitarra da 6000€, la vacanza in USA, i Vinili in 400 copie, ecc…è una pippa? Non deve esistere?
Brava gente, non ci sarebbe stato nemmeno Son Hose a queste condizioni.

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